Sintesi della relazione presentata al Convegno di Carrara (11-12 ottobre 2025) nell’80° della FAI
I primi anni di attività della Commissione Antimilitarista della FAI
Nel corso del congresso di Bologna (16-20 marzo 1947), la Federazione anarchica italiana (FAI) lanciò la parola d’ordine «non un uomo, non un soldo, non un’ora di lavoro per la guerra», rifacendosi a una precisa tradizione antimilitarista: «né un uomo né un soldo» aveva dichiarato Andrea Costa per opporsi all’impegno coloniale italiano in Africa nel 1887, uno slogan che in seguito era stato ripreso dall’Alleanza Internazionale Antimilitarista, nata ad Amsterdam nel 1904. A Bologna, la FAI costituì inoltre una Commissione Antimilitarista, affidata a un giovane Pier Carlo Masini, che organizzò delle “giornate antimilitariste” in collaborazione con i gruppi locali: si tennero così tra il 13 giugno e il 14 novembre 1948 un centinaio di comizi tra Toscana, Liguria, Marche, Romagna e Veneto, seguiti da decine di iniziative nel Lazio nell’aprile del 1949.
In preparazione di queste “giornate antimilitariste”, nel novembre 1947, venne pubblicato un manifesto dal titolo “Contro il militarismo e la guerra”. Scritto, come si legge nella seconda di copertina, da alcuni giovani anarchici, il manifesto accusava tutti i partiti italiani di essere militaristi in quanto esponenti di uno dei due blocchi della Guerra fredda, nei confronti dei quali veniva ribadita la completa estraneità. Secondo questo manifesto, l’antimilitarismo anarchico era integrale e rivoluzionario: integrale perché condanna ogni guerra dal momento che «abitua alla disciplina, accresce i poteri della classe militare, ostacola la circolazione delle idee, avvelena le relazioni fra i popoli, lascia in eredità una massa di spostati che costituiranno il nerbo della reazione»; rivoluzionario in quanto mira a sradicare le «cause del fenomeno della guerra e del fenomeno del militarismo». Ribadendo i principi dell’azione diretta e della rispondenza mezzi/fini, il manifesto precisava: «devono essere soprattutto i singoli che in piena indipendenza pensano le iniziative e prendono il coraggio morale per metterle in atto».
La Commissione Antimilitarista e in particolare Masini presero inoltre contatto con il movimento pacifista e non-violento, in particolare con l’ex sacerdote cattolico Ferdinando Tartaglia (che Masini stesso conosceva dai tempi del giornale “Gioventù anarchica”), con Aldo Capitini e il suo Movimento di Religione. Nei confronti di questi, Masini portò avanti una battaglia politico-culturale finalizzata a spingerli dalla testimonianza morale al riconoscimento che alla base della guerra c’era il potere, e non l’istinto alla violenza. Pur ammettendo l’«inefficienza» e le «paurose incongruenze» del movimento pacifista, il settimo numero del “Bollettino Interno” della FAI del 1948 incoraggiava comunque a cercare forze che «convengano su una linea di opposizione alla guerra e invitarle a mobilitarsi per loro conto per la loro strada con la loro bandiera». La collaborazione contingente proposta dalla Commissione Antimilitarista si tradusse in diverse iniziative tra il 1947 e il 1948 come, per esempio, il ciclo di conferente tenuto da Tartaglia presso alcuni gruppi anarchici sul tema La guerra: i suoi fautori e i suoi avversari e la partecipazione di Masini al quarto congresso del Movimento di Religione e al primo convegno di rinnovamento politico promossi da Capitini.
È noto come nel 1949 i contrasti con il gruppo di “Volontà” portarono Masini alle dimissioni sia da “Umanità Nova” (di cui era redattore dal 1948), sia dalla Commissione Antimilitarista; in seguito Masini fonderà i Gruppi Anarchici di Azione Proletaria (GAAP). Nel frattempo, era scoppiato il caso Pinna.
L’anarchismo davanti ai primi obiettori di coscienza
Nel 1948 Pietro Pinna, influenzato da Capitini, si rifiutò di prestare il servizio militare: si tratta del primo (o classificato come tale) obiettore di coscienza in Italia. Nel 1950 venne seguito prima da Elevoine Santi del Servizio Civile Internazionale, quindi dagli anarchici Pietro Ferrua, Mario Barbani (che in realtà inizialmente anarchico non era ma lo diventerà poco dopo) e Angelo Nuzza. A queste figure si dovrebbe aggiungere Libereso Guglielmi, il primo proto-obiettore, ritratto da Italo Calvino nel racconto “Un pomeriggio Adamo”. Libereso Guglielmi, Ferrua e Nuzza appartenevano al gruppo anarchico Alba dei Liberi di San Remo. Tenendo in considerazione ciò, non stupisce che nel suo fondamentale libro dedicato a “L’obiezione di coscienza anarchica in Italia” Ferrua abbia indicato San Remo come la «capitale dell’obiezione di coscienza in Italia».
Gli obiettori di coscienza provocarono un intenso dibattito nel movimento anarchico. Nel settembre 1949 “Umanità Nova” accusò Pinna di essersi fatto strumentalizzare dai partiti di sinistra e di avere un atteggiamento troppo “cristianeggiante”, prevedendo che il suo sarebbe rimasto un caso isolato. Poche settimane dopo, un altro articolo rilevò l’«ingiustificata emozione» suscitata dal suo caso e riportò due discorsi pronunciati durante una manifestazione a Parigi. Il primo, di André Breton, rifiutava i toni pacifisti, umanitari e riformisti dei sostenitori dell’obiezione di coscienza. Nel secondo, l’anarchico francese Fontaine (forse Georges Fontenis?) contrapponeva all’obiezione di coscienza teologica (il rifiuto di servirsi della forza) l’obiezione di coscienza rivoluzionaria (il rifiuto di servirsi della forza agli ordini e a profitto degli Stato), disponibile a impugnare le armi «per difendere la libertà». Fontaine consigliava quindi ai «giovani rivoluzionari» di usare la «malizia» per sfuggire alla leva o di «fare il lavoro antimilitarista nell’esercito». A suo parere, in altri termini, l’obiezione di coscienza trasformava indebitamente un problema politico (come comportarsi davanti al servizio militare), in una questione etica.
A queste tesi rispose Giovanna Caleffi, la quale aveva già reso omaggio a Pinna e auspicato altri casi simili: «non si comincerà mai nulla di serio nella nostra società», si legge sul numero di “Volontà” del settembre 1949, «se non si metterà come primo passo di resistere, individualmente, chiaramente, ognuno secondo se stesso. Pietro Pinna ci ha dato un esempio ammonitore. Egli ci dice che invincibile è l’individuo che osa volere fermamente». Gli obiettori di coscienza che rifiutavano pubblicamente il servizio militare (affrontando il processo e la prigione), aggiunse Giovanna Caleffi su “Umanità Nova”, diffondevano lo spirito antimilitarista «infinitamente più di chi s’è accontentato di evitare il servizio militare o con la diserzione o con l’astuzia», perché il disertore salvava la sua coscienza (e magari la sua vita), ma chi rifiutava pubblicamente la leva (come gli obiettori) salvava se stesso e allo stesso tempo incitava e aiutava anche gli altri a trovare il coraggio di salvarsi.
In un articolo pubblicato nel 1953 su “La Palestra dei Reprobi”, Ferrua e Barbani rilevarono la presenza nel movimento anarchico italiano di una tendenza che criticava gli obiettori (anche quelli anarchici), malgrado le tradizioni non violente esistenti nel pensiero anarchico (a tal proposito venivano citati Lao-tse, Han Ryner, Tolstoj, Herbert Read ed Émile Armand). Dal loro punto di vista, non c’era contrasto tra violenza e non-violenza: l’una vuole distruggere l’impalcatura capitalistica, l’altra i residui autoritari presenti in ciascuna persona. Pur definendo l’obiezione un metodo di lotta contingente, i due precisavano che questo metodo di lotta si richiamava a quell’istanza morale individuale che rifiutava il compromesso.
Nella FAI esisteva un gruppo favorevole all’obiezione di coscienza. Ne facevano parte figure come Italo Garinei, che seguì le vicende degli obiettori di coscienza sul giornale torinese “Era Nuova”; Giuseppe Mariani, che riteneva l’obiezione di coscienza una sorta di aggiornamento della diserzione nel mutato contesto storico; Alfonso Failla, definito da Ferrua uno dei più accaniti sostenitori dell’obiezione di coscienza nella FAI; Ugo Fedeli, il quale tra l’altro testimoniò al processo di Ferrua; Umberto Marzocchi, che il 30 aprile 1950 definì nel corso di un comizio a Torino gli obiettori di coscienza come coloro che rifiutavano «praticamente» di farsi strumento di morte.
Una (breve e provvisoria) conclusione
Tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta l’istanza antimilitarista assunse anche le forme dell’obiezione di coscienza: le pulsioni etico-politiche si intrecciarono così con quella antiautoritaria. Da questa prospettiva, l’obiezione di coscienza sembra in un certo senso riproporre il gesto esemplare capace di scuotere le coscienze. Eppure, non bisogna nemmeno incorrere in semplicistiche identificazioni: per Pinna, ad esempio, l’obiezione di coscienza era un fatto etico, consisteva nel rifiuto personale di prendere un’arma per uccidere; per gli obiettori di coscienza anarchici era invece un fatto politico, che si ricollegava a quell’antimilitarismo anarchico visto nella prima parte di questo articolo. Per gli uni era fondamentale non uccidere, per gli altri l’essenziale era non obbedire.
D.B.